martedì 18 marzo 2014

Xera, la ragazza con la spada (pag. 49-50)

I pensieri di Alea (parte seconda)


Quando abbandonai il negozio, oltre che alla pergamena completa, Paru mi rifilò una bussola con l’ago rotto, un flauto che non emetteva alcun suono e l’elsa di una spada spezzata: oggetti perfettamente inutili. Infilai tutto nella mia nuova bisaccia (altro acquisto forzato) e senza curarmene troppo, tornai alla taverna. Mi restavano solo trenta monete nel borsellino (il costo di una stanza) per cui conscia che nel cuore della notte non avrei fatto molta strada, rinunciai ai dolci e mi concentrai sulla pergamena. 

Impiegai quattro ore per comparare i dati del nuovo documento con quelli del diario e conclusi che partire per Taseth, fosse la soluzione. Riposai e l’indomani all’alba, preparai tutte le mie cose decisa a partire. C’era un problema però: come avrei pagato il mezzo di trasporto? Non potevo nemmeno permettermi il cibo per il viaggio e pensare di iniziare un’avventura senza una piccola scorta, era da folli. Provai allora, a girare nuovamente per il mercato nella speranza che qualcuno avesse bisogno di aiuto in cambio di denaro, ma nessuno volle assegnarmi un lavoro. Mi spostai quindi a nord della capitale: con non poca difficoltà aggiungo, date le strade gremite di operai. 

Dopo un’ora, ero ancora al punto di partenza; quando notai una donna, dall’altro lato della strada, che attirò la mia attenzione <<Da questa parte!>> mi disse. La seguii per alcuni minuti senza fare domande e ci ritrovammo in un vicolo della città vecchia (anche se di lì a poco, sarebbe stata rasa al suolo). La donna indossava un velo color porpora che le copriva il capo, talmente lungo da toccare il suolo (indumento tipico di questa città). Il suo viso era abbronzato e paffuto e i suoi occhi, scuri come il carbone. Entrammo in una delle case povere del vicolo; doveva essere la sua dimora e nonostante esternamente fosse malandata, all’interno vi era un arredamento impeccabile ed elegante. Ci accomodammo su di un grande tappeto esotico, gremito di cuscini di seta colorata e una volta sedute, la donna bruciò dell’incenso per allietare l’atmosfera. 

<< È stata una fortuna incontrarvi>> affermò <<Ero davvero disperata>>. Confusa, aggrottai le sopracciglia e le domandai ulteriori spiegazioni in merito. << Il mio nome è Aztea e sono la moglie di Paru il mercante. Mio marito mi ha parlato di voi: “La cliente che non compra”, così diceva sempre, almeno fino a ieri, quando finalmente avete onorato il patto. A tal proposito, vi cercavo>>. Aztea iniziò ad agitarsi, manifestando un tic nervoso insopportabile: scalpitava, infatti, come se stesse ballando un ritmo incalzante. Cercai di tranquillizzarla, elogiando la qualità del mio acquisto ed evitando di raccontarle della paccottiglia che ero stata costretta a comprare per avere il documento completo. Non ebbi successo tuttavia e al culmine della tensione, si alzò e cominciò a camminare per la stanza in preda all’ansia. 

<<Mio marito non doveva vendervi quel documento, ha violato le leggi del suo villaggio: è imperdonabile>> asserì alzando la voce e scrutando il soffitto (come se da un momento all’altro, qualcosa potesse cadere dal cielo). <<Ha disonorato la sua famiglia abbandonando Taseth, è stato bandito e ha fatto una promessa>> improvvisamente cambiò modo di parlare e farneticò in preda all’agitazione, pronunciando frasi incomprensibili in una lingua che non conoscevo. <<Si calmi signora, la prego! Inoltre non riesco a comprendere le sue parole, quindi seguirla, mi è impossibile>>  le spiegai. Aztea si scusò e mi rivelò che quando era nervosa, non poteva fare a meno di utilizzare la lingua dei suoi avi. Non appena la calma fu ristabilita, la donna si sedette nuovamente e m’implorò di restituirle il documento che avevo acquistato.

Ci fu un momento di silenzio (questa volta fui io ad alzarmi). <<Sono spiacente ma quel documento mi è indispensabile per la mia ricerca, oltretutto per averlo, ho speso tutti miei risparmi >> aggiunsi. Aztea allora mi propose di vendergliela ma ancora una volta rifiutai, sebbene fossi a corto di monete. <<Ho giurato a suo marito che non avrei mai rivelato il suo nome, una volta a Taseth e sono ancora intenzionata a rispettare la parola data: ho già mostrato il mio valore>> le dissi risentita e la signora ancora una volta, si scusò. Aztea andò in cucina e tornò con un vassoio carico di biscotti e the caldo, nella speranza di farsi perdonare e devo ammettere che ci riuscì. Bevemmo e mangiammo (avevo una gran fame) e quando feci per alzarmi, m’invitò a riposare prima di partire, promettendomi di fornirmi il cibo necessario per il viaggio e il mezzo di trasporto. Allettata dalla proposta, accettai. 

Aztea mi mostrò la mia stanza, elegante quanto il resto della casa ed esausta, crollai sul letto addormentandomi profondamente. Vorrei poter dire che furono le ore più belle di tutto quel viaggio, ma non lo farò, poiché appena sveglia, mi ritrovai sdraiata in un cantiere abbandonato di Thesla con la testa dolorante e incapace di comprendere che cosa fosse accaduto. Bastarono pochi minuti tuttavia, per capire che la gentile Aztea mi aveva drogato e anche derubato della mappa e del documento (tutto il resto era intatto, compresa la spazzatura che mi aveva rifilato suo marito). Mi alzai a fatica poggiandomi al muro e in quell’istante mi sentii la ragazza più sciocca del continente occidentale ma che dico, dell’intera Raifaelia. Per fortuna avevo trascritto sul diario, i dati più importanti del documento: perlopiù erano coordinate e punti di riferimento, forse non molto, ma in quel momento buio, fu per me una consolazione. 

Quando sollevai la mia bisaccia, avvertii un certo peso, cosa assurda per una persona che era stata appena derubata. Così scrutando meglio notai che il mio borsellino era rigonfio. Aztea mi aveva ripagato della mappa, nonostante io avessi rifiutato, donandomi una cifra che superava notevolmente il valore di tutta la merce che avevo acquistato da suo marito. Avrei potuto intraprendere il mio viaggio e affittare un mezzo di trasporto, ma questo non mi consolò. Era notte fonda ormai e affrontare nuovamente quella donna, sarebbe stato del tutto inutile: chi mai avrebbe potuto credere che fossi stata derubata e che il ladro in cambio, mi avesse donato un’ingente somma di denaro? Decidi di restare in quel cantiere, poiché mancavano diverse ore all’alba e nonostante mi fossi appena svegliata, riposai ancora un po’ (per quanto fosse possibile su di un pavimento duro e polveroso) conscia che il giorno dopo, avrei finalmente abbandonato Thesla.

Il cielo era ancora punteggiato di stelle, quando lasciai quelle rovine inospitali. Per prima cosa acquistai il cibo necessario per il viaggio e subito dopo, raggiunsi in fretta l’ingresso sud della capitale, luogo in cui di solito era possibile noleggiare un mezzo di trasporto. Thesla era famosa per la sua tecnologia avanzata per cui non mi stupii se al posto di bizzarre creature da cavalcare, mi ritrovai dinanzi a un’officina che affittava mezzi meccanici, alimentati dai cristalli energetici (Opuxìte) di Sivhel. Non erano difficili da guidare, infatti, si rivelò un gioco da ragazzi, comprenderne le dinamiche. Skrut Vijak, il proprietario dell’officina, mi fece un buon prezzo nonostante non sapessi per quanto tempo avrei utilizzato il suo mezzo, anzi sembrò indifferente all’argomento (solo più tardi ne avrei compresa la ragione). 

Il mezzo di trasporto che scelsi, era il più piccolo e compatto dell’officina e sicuramente il più veloce. Inoltre era privo di ruote, poiché levitava grazie all’Opuxìte. Per costruirlo, Skrut aveva utilizzato il Logam, lo stesso materiale delle travi dei cantieri ma abilmente lavorato, nonostante fosse poco malleabile. Solo la seduta era in pelle per renderne la guida più piacevole. Il colore scuro dello strano veicolo si abbinava perfettamente al mio umore: ero stanca di quella città. Senza perdere altro tempo ci balzai sopra. Fu come cavalcare una bestia indomita. Lo sentivo vibrare e percepii l’energia del cristallo in ogni parte del mio corpo: ebbi la sensazione di poter controllare quel mezzo a occhi chiusi. <<Il Sikàl è adatto per attraversare il deserto ma fate attenzione al cristallo, se dovesse diventare bianco, vorrà dire che l’energia è terminata>> mi spiegò Skrut. Non comprendevo come avrei restituito il Sikàl, una volta esaurito il cristallo, tuttavia non me ne curai e attivai il veicolo, imponendo la mia mano sul vetro che circondava l’Opuxìte. 

Improvvisamente un bagliore scarlatto mi accecò e spinto da una forza incontrollabile, il Sikàl iniziò a muoversi a gran velocità. A stento riuscii a sentire le parole di Skrut e con la coda dell’occhio, lo vidi agitare freneticamente le braccia, quasi avessi dimenticato qualcosa d’importante. Il mezzo però non aveva intenzione di fermarsi, come a volermi condurre il più lontano possibile dalla città che tanto detestavo. Il Sikàl mi permetteva di inserire delle coordinate come riferimento, così qualora mi fossi smarrita (cosa non del tutto impossibile in un deserto) il veicolo mi avrebbe ricondotto nella giusta direzione. Memorizzai quindi, la latitudine e longitudine di Taseth che secondo il mio mezzo, avrei raggiunto in meno di tre ore, <<Perfetto!>> pensai, lasciandomi alle spalle i confini della capitale. 

Quando giunsi in prossimità del Valico di Kiàl, fermai il mio veicolo, poiché era possibile attraversarlo solo dopo aver mostrato ai soldati di guardia un “Visto d’Abbandono”. Thesla fu costruita sui resti di un vulcano, esploso in seguito a una spaventosa eruzione. La lava inondò quasi tutto e circondò interamente un lembo di terra. Con il passare del tempo però, gli abitanti di Thesla impararono a sfruttarla come fonte energetica, esaurendola quasi completamente. Restavano ormai, profondi crepacci che baluginano appena. Erano solo tre i passaggi che collegavano questo lembo di terra al resto del continente: il Valico di Kiàl a est, il Passo di Balden a ovest e la Forca di Parrhal (il più impervio di tutti) a nord. Insignirli del nome di chi è morto per costruirli, credo sia stato il minimo che potessero fare. Ogni passaggio era controllato dalla Guardia d’Onore di Thesla e senza Visto d’Ingresso o d’Abbandono, non era possibile attraversarli. 

Preparai il documento e superate le guardie, rimontai a bordo del Sikàl. Prima di avviare il motore, attivai la barriera protettiva di cui il veicolo era dotato (dovendo superare un deserto ad alta velocità, avrei rischiato di ingoiare ingenti dosi di sabbia) e controllate nuovamente le coordinate, ripartii. Il deserto di Ashamor era il più vasto dell’intera Raifaelia e a causa delle polveri vulcaniche, la sabbia aveva assunto un colore grigio spettrale. Se non fossi stata alla guida di un Sikàl, il calore della terra mi avrebbe sicuramente ucciso. Davanti a me si ergevano dune immense e nient’altro, inoltre dovevo tenere gli occhi ben aperti, poiché correvo il rischio di essere sbalzata via da qualche creatura ostile. Trascorsero tre ore ma di Taseth non vi era alcuna traccia. Non lontano però intravidi diverse tende: dovevano essere dei mercanti in sosta. Li raggiunsi in fretta e ben presto, mi permisero di accedere all’interno della barriera che proteggeva il loro accampamento. 

<<Ecco cosa avevo dimenticato!>> dissi tra me e me. Ero talmente sicura di raggiunge Taseth, da non pensare a come avrei potuto accamparmi in caso di fallimento. Per fortuna incontrai quei mercanti che mi permisero di riposare e di ricontrollare i miei dati. Uno di loro mi spiegò che il villaggio che cercavo, era circondato da una magia difensiva molto forte che lo rendeva invisibile. Solo in pochi conoscevano il punto esatto in cui dirigersi e loro non erano tra questi. Ancora una volta mi trovai dinanzi a un vicolo cieco. Il più anziano dei mercanti però vedendomi affranta, volle parlarmi in privato all’interno della sua tenda. <<Nessuno cerca Taseth e nessuno ne parla! Quali sono le tue ragioni?>> domandò. Gli raccontai che a causa di una maledizione, non avevo alcun ricordo del mio passato (chissà, forse poteva essere la verità) e che la mia unica traccia mi riconduceva a quelle coordinate. Il mercante sembrò non credermi, era troppo esperto per non capire che stessi omettendo volontariamente altre parti della storia. <<Chi ti ha raccontato di Taseth?>> il tono della sua voce era fermo e deciso, non avrei potuto mentirgli ancora e sperare di restare sua ospite, inoltre non avendo più il documento, ero libera dalla mia promessa; così senza esitazione, gli dissi la verità.

<<Paru, lo conosco molto bene. Non ha alcuna integrità e pur di accumulare monete, venderebbe persino sua moglie. I suoi clienti sono stati quasi tutti raggirati e come risultato delle sue menzogne, sovente si ritrovano in possesso di oggetti maledetti, apparentemente senza alcun valore>> mi spiegò. Improvvisamente iniziai a temere che nella mia bisaccia ci fosse quel tipo di oggetti, ma lo tenni per me, preferii evitare di sembrare ancora più sciocca ai suoi occhi. Gli mostrai invece il mio diario. Quando il vecchio vide le pagine in cui erano trascritti i simboli che non riuscivo a decifrare, ebbe un sussulto e immediatamente me lo restituì, ansioso di disfarsene. Provai a chiedere il motivo di quella reazione ma il mercante m’invitò a lasciare la sua tenda e appena potevo, anche l’accampamento. Prima di separarmi da loro, il vecchio mi consigliò di bruciare il diario e senza aggiungere altro, richiuse la barriera alle mie spalle. Non capivo le ragioni di quell’uomo, ma non avevo alcuna intenzione di abbandonare le mie ricerche, così non potendo far altro, inserii nuovamente le coordinate di Taseth sul Sikàl e ripresi il viaggio. 

Raggiunto il punto esatto, abbandonai momentaneamente il mio mezzo (i mercanti mi avevano donato dei calzari speciali per farsi perdonare di avermi scacciata). Avanzai di qualche passo, tuttavia non volendo rischiare di incappare in qualche barriera letale, mi munii dell’elsa che avevo acquistato da Paru e fendendo l’aria, camminai ancora. Dopo un paio di metri, mi arresi, vinta dal caldo asfissiante che mi circondava e in preda alla rabbia, scaraventai quel ferro vecchio il più lontano possibile. L’elsa però non ricadde al suolo, poiché svanì dinanzi a me, risucchiato da qualcosa d'invisibile ai miei occhi. Raggiunsi in fretta il Sikàl e a tutta velocità, mi diressi nella direzione in cui avevo visto sparire la spada spezzata. Per un attimo chiusi gli occhi, temendo di essere investita da qualche sorta di magia difensiva. Quando li riaprii, evitai a stento un muro di roccia scura; avevo finalmente trovato Taseth.


Per prima cosa, mi accertai che nessuno mi avesse visto e in fretta, abbandonai il punto dal quale avevo superato la barriera. Una volta percorso qualche metro però, mi resi conto che l’Opuxìte stava cambiando colore, tingendosi di bianco. <<Com'è possibile?>> mi domandai nervosa. Ipotizzai che fosse stata la barriera a risucchiare l’energia del cristallo, cosa che non avrei mai potuto prevedere. Dopo che fu completamente bianco, il Sikàl smise di levitare e a quel punto trasportarlo divenne impossibile. Pensai che sarebbe stato saggio nasconderlo, nel caso avessi trovato un modo per riattivarlo, ma non ebbi il tempo di attuare il mio piano che inaspettatamente, il veicolo sparì sotto i miei occhi increduli. Compresi finalmente, perché Skrut non si era preoccupato della restituzione del Sikàl e capii inoltre, cosa stesse cercando di dirmi poco prima di partire. Non mi persi d’animo. 

Avanzai fino a raggiungere la fine del muro e con circospezione, guardai al di là di esso. Avevo visto scenari incredibili nel corso dei miei viaggi, ma non avrei mai pensato che nel mezzo di un deserto, nascosta da una barriera, ci fosse una giungla. Ero senza parole. C’erano alberi alti diversi metri, piante esotiche e un’intricata ragnatela di liane che facevano da cornice al piccolo villaggio. Gli edifici di Taseth erano molto squadrati ma irregolari e visti da lontano, potevano sembrare le sagome di creature mitologiche. Le case erano colorate e vivaci e per le strade, tra una dimora e l’altra, si ergevano delle colonne di pietra lavica sulle quali era collocata la statua di un gatto. Sotto ogni colonna inoltre, c’erano dei fiori, forse un tributo in onore di quelle sculture. 

Senza fare rumore, m’intrufolai in una delle case adiacenti al muro e una volta constatato che fosse vuota, arraffai i primi indumenti che trovai, indossandoli in tutta fretta. Per fortuna era uno di quei lunghi veli che le donne di Thesla indossano abitualmente. Mi calzava a pennello ed era talmente ampio, da coprire anche il mio bagaglio. Solo allora potei camminare liberamente per il villaggio, senza destare alcun sospetto. Quello doveva essere un giorno speciale per Taseth, poiché tutti i suoi abitanti non facevano che scalpitare impazienti. Purtroppo non comprendevo la loro lingua, la stessa che la signora Aztea aveva usato in preda all'agitazione. Mi appropriai di un cesto di fiori e finsi di distribuirli per il villaggio, così facendo mi fu possibile perlustralo quasi del tutto. L’unica cosa che riuscii a scoprire tuttavia, fu che quel giorno ci sarebbe stata una cerimonia e che si sarebbe tenuta al centro di Taseth. 

Nella piccola piazza avevano allestito un altare, attorno al quale raggrupparono le statue. Ogni volta che aggiungevano una scultura, pronunciavano una sorta di litania di cui compresi solo un nome: Aseth. Ricordando le parole di Paru, ebbi la giusta intuizione. Quella cerimonia era dedicata alla dea che Taseth venerava e che in qualche modo, aveva a che fare con i gatti (unico punto che non mi fu del tutto chiaro). Quando anche gli abitanti iniziarono a riunirsi davanti all’altare improvvisato, li raggiunsi incuriosita. La folla s’inginocchiò e così anch’io. Come fossero ipnotizzati, innalzarono le loro preghiere al cielo, cantando una nenia che mi diede i brividi. Continuarono a pregare fino a quando non arrivò quello che doveva essere l’uomo più importante del villaggio. Si poteva capirlo dagli abiti formali che indossava e dalla maschera che portava, alla quale erano incastonate delle pietre preziose, grandi come ciottoli. 

Quando l’uomo fu dietro l’altare, la folla si zittì. Dopo pochi minuti recitò la stessa preghiera che gli abitanti avevano ripetuto cantando e quando terminò, tre donne si alzarono in assoluto silenzio e consegnarono all’uomo: un calice, un pugnale e un giglio bianco. La donna che aveva portato il fiore, cantò a voce molto alta, dandomi quasi la sensazione che stesse piangendo. Accompagnata dalle altre due, entrarono in una casa vicina e quando ne uscirono, erano in quattro. Un’altra donna si aggiunse al gruppo ma diversamente da loro, era l’unica che indossava un velo argentato e che aveva il viso scoperto. Non poteva avere più di tredici anni, era praticamente una bambina ma nello sguardo non notai alcuna preoccupazione. Le tre donne raggiunsero il resto della folla e tornarono a inginocchiarsi, mentre la fanciulla, aiutata dall’uomo, si sdraiò sull’altare. 

Ebbi subito una brutta sensazione. Associare un pugnale a un altare, non presagiva nulla di buono. Ancora una volta l’uomo recitò la stessa preghiera e durante la litania, intrise la lama nel calice. Solo allora mi resi conto che conteneva del sangue e di nuovo, ebbi un sussulto. Recitata la formula per intero, l’uomo disegnò con le dita, degli strani simboli sul volto della bambina e utilizzò il sangue come inchiostro. Avvertii dei brividi corrermi sulla schiena, sapevo che di lì a poco, sarebbe accaduto qualcosa che non avrei mai più dimenticato.

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