Dinanzi a me non vidi che immense distese di sabbia
così temendo di perdermi, pensai che sarebbe stato saggio leggere il secondo
verso della poesia restando accanto al portale.
“Nella casa di Ashamor sei ora approdato,
un luogo arso, spento e in eterno arenato.
Non rimandare allora avveduto straniero
e osserva la rena poiché cela un sentiero.
Ma ricorda infine, se la meta vuoi scoprire,
chi non trova la via, un ago deve seguire.”
Decisi quindi di analizzare ogni singola frase,
soprattutto considerando che perdersi nel deserto, avrebbe significato morte
certa. Il verso mi suggeriva di prestare particolare attenzione alla sabbia,
anche se il vento continuava a ostacolare i miei movimenti. Scostai allora la
rena con i piedi seguendo l’intero perimetro del portale e sul lato destro,
notai quel che restava di un’antica strada. Riportarla alla luce però sarebbe
stato impossibile: per diversi tratti, infatti, era sommersa da dune molto
alte. Studiai infine le ultime due frasi poiché comprenderle, mi avrebbe
permesso di proseguire
Rimuginai a lungo ma non ne venni a capo così assetata
a causa dell’alta temperatura, frugai nella borsa in cerca della mia borraccia.
Da quando Zaharra l’aveva incantata, trovare quel che mi serviva era diventato
arduo. Sfruttando quindi la superficie lastricata del portale vi riversai una
buona parte del mio bagaglio, espediente che mi permise di riappropriarmi finalmente
della preziosa acqua. Dissetata, riordinai la bisaccia e notai con stupore di
avere ancora con me le cianfrusaglie di Paru. Una m’incuriosì in particolare:
la bussola rotta. Analizzandola con molta attenzione, mi resi conto che sul
retro di questa c’era un piccolo tappo e una volta rimosso, la scossi velocemente
sperando che nascondesse qualche ago di riserva … ma così non fu. La
guardai quindi più da vicino e mi meravigliai nel notare che non vi era alcuna
traccia di sostegni che ne indicassero la presenza in origine. Non
conoscendone i meccanismi, preferii agire d’istinto inserendo nel foro dei
frammenti appartenenti alla vecchia strada sepolta. Riposi il tappo e aspettai.
In pochi secondi il pietrisco si condensò in un unico punto e senza indugiare
oltre (proprio come mi suggeriva la poesia) m’incamminai nella direzione
indicata. Coincideva esattamente con il sentiero o almeno con quello che riuscii
a dissotterrare man mano che proseguivo. Dopo ogni duna inoltre, mi accertavo
che ci fosse qualche traccia della strada e che la bussola stesse continuando a
emularla; quando però scomparve del tutto sommersa dal deserto, dovetti
affidarmi solo a quelle indicazioni sperando infine di giungere alla meta.
Evitai ogni scontro diretto e se avvistavo delle
creature a me sconosciute, mi nascondevo in attesa che la via fosse di nuovo
sicura; non potevo correre il rischio che la bussola si rompesse . Il primo
sole però, iniziò presto a calare e sebbene ci fosse ancora la luce del secondo
a illuminare il mio cammino, temevo l’arrivo imminente della notte. Passarono
altre due ore e anche il secondo sole tramontò; decisi quindi di affrettare il
passo, nonostante mi fossi già ripromessa che avrei continuato le ricerche persino
al buio. Fu allora che giunsi in prossimità di una città … o almeno di quello
che ne restava.
Superate le mura diroccate mi sentii più al sicuro e
nonostante quel luogo fosse completamente abbandonato, cercai comunque di non
fare rumore soprattutto quando m’intrufolai di soppiatto tra le rovine di una
vecchia abitazione (una delle poche ad avere ancora le mura e il soffitto).
Serrai la porta con ciò che rimaneva di un’antica colonna: stranamente
sollevare quelle macerie fu per me un gioco da ragazzi. Certa infine, che fossi
l’unica ospite del rudere e assicurati tutti gli accessi, richiamai a me una
piccola fiamma, circoscritta da una barriera di primo livello, affinché non divorasse
il resto della casa. Me l’ero sempre cavata con la magia evocativa, nonostante
non avessi alcun ricordo sul come ne fossi entrata in possesso. La luce del fuoco
illuminò la stanza ma non fu molto gradita dalle minute creature notturne che
spaventante, si rintanarono tra le fessure del pavimento.
<<Chissà se gli insetti del deserto sono buoni
da mangiare!>> pensai a causa dei morsi della fame. Frugai ancora
una volta nella bisaccia e consumai quindi una parte delle razioni di cibo che
mi aveva donato Zaharra. Quando però fui sul punto di addentare l’ennesimo
boccone, le mie mani iniziarono a tremare e a stento riuscii a non mollare la
presa del cibo. Dopo gli arti superiori, anche le gambe tremarono e infine
cominciarono a paralizzarsi. Sapevo tuttavia cosa fare. Afferrai una delle
pozioni e la bevvi tutta di un fiato. Ci vollero alcuni minuti affinché facesse
effetto e non appena ripresi il controllo del mio corpo, mi sdraiai esausta sul pavimento; chiusi gli occhi e dormii profondamente. Mi risvegliai solo a giorno inoltrato (dovevo aver riposato a lungo). In fretta estinsi la fiamma e prima
di riporre le fiale nella borsa, mi accertai che nessuna strisciante bestiaccia avesse banchettato con le scorte di cibo. Per fortuna la mia magia li aveva
tenuti lontani. Scostai quindi i macigni dall'ingresso principale assicurandomi
che nessuno mi stesse aspettando all'uscita.
Poiché la città continuò a sembrarmi deserta, ripresi le
mie ricerche indisturbata. Tornai quindi sui miei passi e raggiunsi ancora una
volta le mura principali, nella speranza di ritrovare simboli o scritture
arcaiche che potessero rivelarmi dove fossi; il mio intuito fu premiato.
Nascosti da altre macerie, vi erano dei caratteri a me familiari che tradotti, indicarono
il nome della città: Ebeth. Durante i miei viaggi avevo già sentito parlare di
questo luogo. Ebeth, infatti, era l’antica capitale ma anni di contrasti e
guerre civili la condussero alla distruzione. Solo osservandone le rovine potei
realmente immaginare quanto grande era stata in passato e vederla così mal
messa e dimenticata, m’intristì.
Partendo dalle cadenti mura, seguii la strada
principale attorno alla quale erano stati costruiti tutti gli edifici della
città. Giunsi quindi in prossimità dell’antica piazza, proprio dinanzi a una
maestosa fontana che dell’acqua ormai non ne aveva alcun ricordo e approfittando
della sua altezza, mi arrampicai fino in cima per avere una visuale
migliore della città. Restai abbagliata dalla magnificenza di quelle strutture
nonostante fossero fatiscenti, ma solo volgendo lo sguardo a nord, compresi
davvero la bellezza di Ebeth. Se avessi, infatti, continuato a percorrere la
strada centrale, sarei giunta fino alle porte di un tempio maestoso. Diversamente
dagli altri edifici, era ancora integro come fosse stato eretto da poco. Impaziente
di poterlo osservare più da vicino, iniziai a correre, non prima però, di aver
compiuto un balzo innaturale che mi permise di tornare a terra velocemente. In
quel momento non mi resi conto di quanto era cambiato il mio corpo.
Più mi
avvicinavo alla struttura e più questa cresceva, solo raggiunta l’imponente
scalinata compresi le reali dimensioni di quell'edificio. Tutto a un tratto mi sentii insignificante come un insetto, senza contare poi la brutta sensazione che
investì il mio corpo come un Sikàl. Quando provai a entrare, una forza invisibile mi colpì
rimandandomi violentemente in fondo alle scale e facendomi comprendere a chiare
lettere che non ero una gradita ospite. Per fortuna riuscii ad attutire la
caduta con una capriola di cui io stessa ne fui sorpresa. <<Alea, quando imparerai a fidarti del tuo
istinto?>> pensai. Cercare di risalire quella rampa sarebbe stata
fatica sprecata, fu allora che rammentai la poesia. Distratta, infatti, dal
fascino di quelle rovine misteriose avevo completamente dimenticato di leggere
il verso successivo della pergamena, per cui pensai che fosse saggio (prima di
perdermi) tornare a concentrarmi sull'obiettivo del mio viaggio (soprattutto
considerando che il tempo a mia disposizione era ormai agli sgoccioli).
“Sii il benvenuto, tenace esploratore,
Ebeth è il regno che cadde nel terrore.
Il viaggio è concluso, la meta è certezza
raggiungi Eliza, la più antica fortezza.
Non poltrire tuttavia, oh malcapitato
aguzza l’ingegno, l’ingresso è celato”
<<Se
avessi letto prima questo verso, avrei saputo da subito il nome della città; la
pazienza non è una mia virtù>> mi dissi. Al contrario dei versi
precedenti, l’attuale sembrava contenere meno informazioni rilevanti, a parte
il nome della fortezza (Eliza) e della città. Tuttavia le ultime due righe mi
rincuorarono, poiché seppur nascosto esisteva un ingresso. Dato che quello
frontale mi era precluso, decisi che sul retro della struttura potesse esserci
qualche indizio. Ci volle parecchio tempo per aggirarlo e quando finalmente
giunsi al capo opposto, ebbi una brutta sorpresa. I due lati della fortezza
erano perfettamente identici. Esausta mi accasciai al suolo e ne approfittai
per ingerire l’ennesima mistura, rallentando così il processo di mutazione (ero
ormai in grado di anticipare gli spasmi). Rilessi di nuovo la poesia ma questa
volta non mi venne in mente nulla. Dato però che la rima mi suggeriva di far
ricorso al mio ingegno, provai a ripensare a tutte le informazioni ricevute in
merito alla Dea Aseth e alcune le appuntai sul diario.
Il dettaglio che mi
sembrò essere il più rilevante, fu quello che riguardava il suo potere. Zaharra
mi disse, infatti, che la Dea vegliava sulla dualità dell’animo umano: quella
votata al bene e quella malvagia. Allo stesso modo il tempio aveva due facce e
se la prima mi aveva scacciato, forse la seconda avrebbe agito diversamente.
Corsi rapida in cima alle scale e senza indugio, provai a entrare nel
tempio. Ancora una volta però, fui scalzata e nuovamente mi ritrovai a rotolare
fino in fondo alle scale. <<Pensa
Alea, pensa>> continuai a ripetermi. Nonostante la mia ipotesi si
fosse rivelata errata, sentivo di essere sulla strada giusta: l’origine del
potere di Aseth era la chiave. Supposi allora che se le due facce del tempio
rispecchiavano quelle dell’anima, bisognava essere votati all’una o l’altra
fazione per accedervi, eppure anche l’uomo migliore ha un lato oscuro.
Come entrare nel tempio allora?
<<Semplice!
Come diceva sempre il saggio Murdar “Se davanti a te ci sono due estremi
incompatibili, ricorda che la soluzione sta nel mezzo!”>>. Aggirai
velocemente il tempio ma raggiunta la facciata laterale non vidi nulla che
ricordasse lontanamente una porta. Dovevo vederci chiaro. Scalai la piccola
altura poiché sui lati della fortezza non c’erano scale e in pochi minuti arrivai
in cima. Con prudenza poi, allungai il braccio sinistro sperando di non essere
respinta ancora, ma nessuna forza m’investì
né tanto meno avvertii sensazioni sgradevoli. Sulla parete c’erano delle
iscrizioni, simboli perlopiù e qualche disegno inciso nella pietra. Ci volle
un’ora per tradurre quella lingua e nonostante fosse molto complessa, riuscii a
comprendere che su quel muro era narrata la storia del tempio. A parte questo
però, non c’era nulla che mi suggerisse la presenza di punti d’accesso.
Durante
l’ennesima lettura, notai tuttavia che un’informazione riportata, non tornava. “Il tempio fu eretto per proclamare al mondo
la supremazia di Eliza. La regina allora lo benedì donandogli il suo nome e da
quel giorno tutti lo conobbero come Ebeth”. <<Questa frase non ha alcun senso!>> mi dissi. Fu allora che sfiorando la pietra con le dita,
mi resi conto che alcuni simboli si muovevano e con sorpresa constatai che
addirittura era possibile rimuoverli. Senza esitazione quindi sostituii i due
nomi dell’iscrizione affinché le informazioni fossero corrette e quando
l’ultimo tassello fu al suo posto, una porta si aprì dinanzi a me.
A differenza della facciata esterna, l’interno
dell’edificio era fatiscente e sul punto di crollare. Prestai molta attenzione,
infatti, a dove mettevo i piedi, ma ben presto la luce dell’ingresso svanì e un
profondo senso di vuoto mi avvolse. Evocai ancora una volta la piccola fiamma e
servendomi di una benda e di un bastone, costruii una torcia improvvisata che
potesse illuminarmi il cammino e il cuore. Immediatamente potei notare che il
tempio era disseminato di lampade a olio e man mano che avanzavo, mi presi la
briga di accenderle, non tutte chiaramente ma una buona parte. Quando l’atrio
centrale divenne più luminoso, spensi la mia torcia e prima di proseguire, mi
guardai attorno. Non ebbi molto tempo, però, per esplorare l’ambiente, poiché
dalle due porte laterali giunse presto il mio corteo di benvenuto.
Una schiera
di creature che dall’aspetto mi sembrarono corpi di defunti rianimati, iniziò a
venirmi in contro e non per invitarmi a prendere una tazza di the. <<Kenòs, fendi il vuoto>> gridai e
tra le mani apparve la mia fidata spada. Non ricordavo nulla del mio passato,
ma l’unica cosa certa era la presenza di Kenòs e la mia capacità di evocarla.
Un’arma così imponente non s'addiceva a un essere minuto come me, eppure era
l’unica lama che avrei brandito (fino a quel momento). Quando lanciai il primo fendente,
però, avvertii qualcosa di diverso nella mia fida compagna. La prima era il
riuscire a brandirla facilmente con una sola mano, sebbene fosse uno spadone
che ne richiedeva due. La seconda invece, era il presentimento che il suo
potere si fosse accresciuto. In anni di duelli era la prima volta che provavo
quella sensazione. I miei avversari al contrario, impugnavano delle comuni
spade e per me fu semplice sopraffarli, nonostante fossero in numero maggiore. Nel
momento in cui li trafiggevo, questi svanivano, lasciando dietro di se polvere
e vesti logore.
Impiegai poco tempo per disfarmi di loro e sebbene fossi
nuovamente sola non ritirai la mia spada, trovai invece più saggio tenerla a
portata di mano. La grande sala in cui ero, non aveva nulla di speciale, né
decorazioni né tesori da sfoggiare, così essendoci solo due strade da
percorrere, scelsi quella a me più vicina sperando fosse la meno pericolosa. Mi
ritrovai perciò in una stanza più piccola e con la torcia, accesi le lampade a
olio fissate alle pareti. Questa volta potei illuminarle tutte, poiché erano
collegate tra loro da piccoli condotti di metallo. Diversamente dalla prima, la
nuova camera era meno fatiscente nonostante gli evidenti solchi presenti sul
pavimento. Guardandoli più da vicino però iniziarono a sembrarmi dei graffi,
piuttosto che crepe e avvertendo l’ennesima sensazione di pericolo, serrai la
mano sinistra attorno alla spada temendo che da un momento all’altro, avrei
avuto a che fare con l’essere che li aveva generati. Scrutai con circospezione
il resto dell’ambiente, l’uscita era a pochi passi da me. Senza compiere movimenti
bruschi allora, m’incamminai verso il portone ma una volta raggiunto il centro,
sentii qualcosa sfiorarmi la testa.
Una bestia dalle ali di pipistrello, mi
osservava sospesa a testa in giù con uno sguardo divertito. I suoi arti
inferiori inoltre ricordavano gli artigli di un rapace e rilucevano come il
metallo. Sul capo invece, indossava un elmo di bronzo che le copriva il volto,
fatta eccezione per la bocca. Non appena mi accorsi della sua presenza, la
creatura si scagliò su di me in picchiata e se miei riflessi non fossero stati
pronti, mi avrebbe sicuramente ucciso. Colpire un avversario con la capacità di
volare, era veramente difficile e durante la prima parte del duello evitai i suoi
attacchi. Quando per l’ennesima volta però, cercò di colpirmi con gli artigli,
non spiccò subito il volo (come aveva fatto in precedenza) e senza pensarci, sfruttai
quell'attimo d’esitazione per ferirla. Il mio fendente tuttavia non andò a
segno a causa della sua coda che fino a quel momento non avevo neanche notato.
Due serpenti così avvolsero il mio braccio sinistro, bloccando i miei movimenti
e rendendo impossibile l’utilizzo di Kenòs. L’orrenda creatura rise di me
mostrando le sue zanne e appagata, fece sibilare la lingua biforcuta, quando poi
fu al culmine dell’euforia, aizzò la coda affinché le serpi di cui era
costituita, mi mordessero. Per me però non era ancora finita. Avendo la mano
destra libera, infatti, evocai la mia fiamma (con intensità maggiore) che sorprese
la bestia e la costrinse a ritirarsi sul soffitto. Il mio gesto tuttavia la
innervosì ulteriormente e il ghigno che fino a quel momento aveva stampato sul volto,
svanì. Temendo quindi le fiamme che ancora stringevo nella mia mano, volteggiò
freneticamente disegnando ampi cerchi sulla mia testa e allo stesso tempo emise
degli inquietanti versi, forse per indurmi ad abbassare la guardia per il
terrore. Più io mantenevo la mia posizione e più quella sembrò spazientirsi;
quando improvvisamente, abbandonata l’idea di intimorirmi, iniziò a graffiare
con gli aguzzi artigli, le pareti della sala. In pochi minuti generò così una
pioggia di scintille che mi caddero addosso e dalle quali non ci si poteva in
alcun modo difendere.
L’unica cosa che potei usare per ripararmi il viso fu la
grande elsa di Kenòs ma proprio nell'istante in cui sollevai il braccio, la creatura
si fiondò su di me e squarciò i miei abiti, ferendomi gravemente. Il braccio mi
doleva e dallo sfregio persi molto sangue. Non ebbi il tempo, però, di fermare
l’emorragia, poiché ancora una volta la bestia mi si scagliò contro
intenzionata a portare a termine quanto aveva iniziato. Rapidamente allora passai
la spada nella mano destra e con un colpo ben assestato, la ricacciai con
violenza sul soffitto. La creatura però non si arrese e di nuovo piombò su di
me. Riuscii a evitare il suo attacco per un pelo e nello stesso istante con un
movimento fulmineo del braccio, le tranciai di netto una delle due ali. Le sue
urla s’infransero sulle pareti della sala ma non m’impietosirono e implacabile,
la furia della mia lama ricadde su di lei privandola della testa e mettendo
fine così alle sue sofferenze. Il capo mozzato rotolò verso la porta che fino a
quel momento aveva protetto e che quasi burlandosi di lei, inaspettatamente si
spalancò.
A causa dell’adrenalina ancora in circolo, facevo fatica a respirare,
il mio cuore invece batteva così all’impazzata che pensai fosse sul punto di
uscirmi dal petto. Dovevo calmarmi. Mi sedetti alcuni minuti prima di
proseguire, il mio braccio aveva bisogno di essere medicato e con quanto avevo
nella bisaccia, potei disinfettarlo e bendarlo. Mi rincuorò inoltre costatare
che quella bestia non aveva del veleno sugli artigli, per cui bevvi una fiala
di Zaharra per fermare l’emorragia. Mi sentii subito meglio nonostante il
braccio avesse bisogno di cure migliori. Afferrai nuovamente la torcia e
m’incamminai seguendo uno stretto corridoio buio e umido. L’acredine della
muffa mi nauseava. Lo percorsi per diversi minuti e proprio quando quell'ambiente mi rese insofferente, giunsi alla fine.
Fui così catapultata in
immensa stanza, buia anch’essa. Nuovamente allora mi prodigai per accendere le
lampade e ancora una volta mi bastò provvedere alla prima, affinché tutte poi
si accedessero simultaneamente. Restai a bocca aperta. I colori dell’oro e dell’argento
predominavano ovunque: sui manufatti, sulle mura e in particolare sul pregiato
trono al centro della stanza. Ogni cosa era stata costruita o disposta solo per
dar lustro a quel reale podio. Persino i particolari più piccoli scintillavano
riflettendo la luce delle torce. Sulle mura inoltre, erano dipinte delle scene
di vita quotidiana e di queste, alcune mi colpirono in particolare. La prima fra
tutte, fu il ritratto della regina Eliza il cui aspetto mi sembrò familiare.
Aveva dei lunghi capelli candidi come la neve, raccolti in una morbida treccia
che ostentava sulla spalla sinistra. Le sue orecchie invece non ricordavano
quelle di un essere umano, bensì (proprio come le mie) facevano capolino sui
lati del capo, scure come la notte. I suoi occhi inoltre erano di due colori
diversi, uno dorato e l’altro d’argento e per un momento, sembrarono scrutarmi
l’anima. Era stata riprodotta durante lo svolgimento di una cerimonia
importante, costei, infatti, sedeva fiera sull’opulento trono, mostrando una
grazia e nobiltà che solo in pochi possono vantare. Nel ritratto indossava delle
vesti finemente lavorate, scure anch’esse e seppur non in rilievo, notai la
nera coda sul suo fianco. Non vi erano dubbi, Eliza doveva aver subito il
rituale di Raghana e a quanto pare era sopravvissuta abbastanza da raccontarlo.
Accanto alla regina, proprio alla sua destra, era stato raffigurato anche un maìka che
vigile, la vegliava. <<Aseth!>>
esclamai. Mi avvicinai quindi al ritratto, incuriosita ma proprio quando cercai
di sfiorarlo, sentii un rumore simile a quello di una leva azionata e il
pavimento sul quale mi trovavo, si spalancò sotto i miei piedi.
Brava, un racconto speciale, spiegato nei minimi particolari, continua cosi', alla prossima puntata.
RispondiEliminati ringrazio, venerdì concluderò i ricordi di Alea :) non perderlo
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